Discutiamo dei fenomeni di migrazione

Discutiamo dei fenomeni di migrazione

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Art.3 della Costituzione della Repubblica Italiana


L’immigrazione ha un impatto significativo sull’Italia, plasmando diversi aspetti del mercato del lavoro, della produzione e dei consumi. Nel corso degli anni, l’Italia è diventata una destinazione sempre più attrattiva per migranti provenienti da diverse parti del mondo, portando con sé una varietà di competenze, culture e prospettive. Sebbene l’impatto economico degli immigrati possa variare in base a diversi fattori, tra cui la qualifica professionale, l’integrazione e le politiche governative non sempre hanno seguito strade lineari. Vorremmo con questo lavoro provare a trovare delle spiegazioni che per la complessità del fenomeno risulteranno sicuramente parziali e circoscritte all’esperienza giovanile.

IMMIGRAZIONE ED ECONOMIA

L’immigrazione ha costituito recentemente una fonte preziosa per l’economia italiana. Nonostante le sfide legate alla pandemia, nel 2020, gli immigrati hanno generato un valore economico superiore a 134 miliardi di euro, corrispondenti al 9% del PIL del paese. A fine 2020, si registravano circa 2,35 milioni di lavoratori stranieri regolari, rappresentanti il 10,2% del totale occupato. La maggior concentrazione si riscontra nei settori caratterizzati da un basso livello di specializzazione. Tuttavia, a causa dell’impatto della pandemia da Covid-19, il numero di occupati stranieri è in diminuzione, mentre si osserva un aumento degli imprenditori stranieri, che ammontano a circa 740.000, costituendo il 9,8% del totale e registrando un trend positivo.

Gli immigrati regolari in Italia contribuiscono a spese relativamente contenute per i servizi sanitari e la previdenza sociale, generando, nel contempo, impatti positivi a livello demografico ed economico. Il saldo fiscale per lo Stato italiano rimane positivo nel 2020. Tuttavia, persistono le consuete criticità legate al flusso migratorio in entrata, come il lavoro sommerso, la limitata istruzione e specializzazione, la scarsa mobilità sociale e la presenza non regolare.

Valore economico e sociale del lavoratore immigrato

L’impatto negativo della pandemia da Covid sui lavoratori stranieri è evidente. Nel corso del 2021, gli occupati stranieri sono stati 2,26 milioni, costituendo il 10% del totale. Il tasso di occupazione, già diminuito bruscamente nel 2020, persiste a essere inferiore a quello degli italiani, con il 57,8% per gli stranieri rispetto al 58,3% per gli italiani.

Il mercato del lavoro per gli stranieri è spesso considerato “complementare”. Mentre il 37,5% degli italiani svolge attività qualificate e tecniche, solo il 7,8% degli stranieri fa lo stesso. Al contrario, gli italiani non qualificati sono l’8,5%, mentre gli stranieri in questa categoria rappresentano il 31,7%. Nonostante la concentrazione in fasce medio-basse, i lavoratori immigrati contribuiscono con 144 miliardi di Valore Aggiunto, apportando un 9% al PIL. L’incidenza è particolarmente significativa nei settori dell’Agricoltura (17,9%), della Ristorazione (16,9%) e dell’Edilizia (16,3%).

L’imprenditoria immigrata continua a crescere, rappresentando il 10% del totale. In un decennio (2011-21), gli imprenditori immigrati sono aumentati del 31,6%, mentre quelli italiani sono diminuiti dell’8,6%. Questa crescita è più evidente al Centro-Nord e nei settori delle Costruzioni, del Commercio e della Ristorazione.

Nonostante la pandemia abbia causato un calo del reddito dichiarato dagli immigrati (-4,3%), il saldo tra il gettito fiscale e contributivo (entrate, 28,2 miliardi) e la spesa pubblica per i servizi di welfare (uscite, 26,8 miliardi) rimane positivo, con un surplus di +1,4 miliardi di euro. Gli immigrati, prevalentemente in età lavorativa, hanno un impatto relativamente basso sulle principali voci di spesa pubblica come sanità e pensioni.

Il capitale umano tra donne e giovani rimane in gran parte inutilizzato. Per ritornare ai livelli occupazionali precedenti alla pandemia, l’Italia avrebbe bisogno di circa 534 mila lavoratori, e considerando la presenza straniera attuale per settore, il fabbisogno di manodopera straniera sarebbe di circa 80 mila unità.

Contributo Immigrati 

Da molte parti si evidenzia spesso che le preclusioni sfavorevoli agli immigrati sono ingiustificate, considerando il loro positivo influsso sul mercato del lavoro, sulla crescita economica e sulle finanze pubbliche dei paesi in via di sviluppo, seppur in misura limitata.

Il vice-Segretario Generale dell’OCSE, Masamichi Kono, ha sottolineato che l’effetto limitato degli immigrati potrebbe derivare dalla sottoutilizzazione delle loro abilità e competenze da parte della maggior parte dei paesi ospitanti. Le politiche pubbliche sono cruciali per potenziare il contributo degli immigrati allo sviluppo dei paesi che li accolgono, come evidenziato durante la conferenza congiunta organizzata da OCSE e ILO per il lancio del rapporto.

Il documento esamina cinque linee guida politiche volte a migliorare il contributo economico degli immigrati nei paesi di destinazione:

  • Adattare le politiche migratorie alle esigenze del mercato del lavoro, agevolando gli ingressi e fornendo maggiori vie legali ai lavoratori migranti per aumentare la percentuale di immigrati regolari e promuovere l’occupazione nell’economia formale. Il monitoraggio attento degli indicatori del mercato del lavoro, unitamente allo sviluppo di meccanismi di consultazione, specialmente con il settore privato, può migliorare ulteriormente i sistemi di gestione delle migrazioni.
  • Sfruttare l’impatto dell’immigrazione sull’economia, considerando interventi di politica per favorire l’occupabilità degli immigrati, incentivare i loro investimenti attraverso la rimozione di ostacoli finanziari e la facilitazione della creazione d’impresa, massimizzando il contributo fiscale attraverso la crescita dell’economia formale o l’espansione della raccolta fiscale tramite le attività dell’economia informale.
  • Proteggere i diritti dei migranti e combattere la discriminazione, conferendo priorità alla tutela dei diritti degli immigrati e alla prevenzione di ogni forma di discriminazione e razzismo da parte delle autorità pubbliche, nonché delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro nei paesi di destinazione.
  • Investire nell’integrazione degli immigrati, implementando misure di politica fin dall’arrivo degli immigrati, con il sostegno attivo delle autorità locali per promuovere la coesione sociale.
  • Migliorare il monitoraggio dell’impatto economico dell’immigrazione. È fondamentale che i paesi in via di sviluppo investano nel potenziamento della raccolta dati sulla migrazione e nell’analisi dei potenziali impatti dell’immigrazione sull’economia.

impatto dell’immigrazione sulla povertà.

Nel corso degli ultimi 30 anni, l’Italia ha sperimentato significativi flussi migratori che hanno generato impatti profondi a livello sociale, economico e culturale. Se negli anni ’90 la percentuale della popolazione con cittadinanza straniera rappresentava l’1,7% del totale, oggi tale percentuale si attesta a poco meno del 10%. Le conseguenze politiche sono evidenti: l’immigrazione è diventata un tema scottante nel dibattito pubblico, alimentando spesso tendenze xenofobe, particolarmente sostenute dai media e da movimenti politici conservatori.

L’approccio politico ed emotivo ha impedito l’emergere in Italia di un dibattito scientifico serio sugli impatti dell’immigrazione e sulle condizioni socioeconomiche degli stranieri. Attualmente, il Paese fatica a comprendere questo fenomeno, affrontandolo finora con approcci d’emergenza. Un esempio recente è il decreto Cutro, che, oltre a rappresentare un’ulteriore legge repressiva nei confronti dei migranti, riflette la mancanza di strumenti da parte della politica e dell’opinione pubblica per affrontare adeguatamente l’immigrazione, a detrimento non solo dei migranti, ma anche del sistema nazionale. Comprendere gli effetti economici dell’immigrazione è cruciale per sviluppare nuove politiche che possano apportare notevoli benefici all’economia italiana, attualmente bloccata da crisi di produttività, bassi salari e un sistema di welfare in difficoltà rispetto a una popolazione sempre più anziana.

Alcuni studi suggeriscono che gli stranieri in Italia hanno subito in modo più acuto gli impatti degli shock economici degli ultimi vent’anni, tra cui la crisi del 2008 e la pandemia da Covid-19. Emerge chiaramente che gli stranieri sono esposti a livelli più elevati di povertà, diventando gli strati più vulnerabili della società. Questa condizione è aggravata dal complicato percorso legale, caratterizzato da leggi restrittive e discriminazioni sociali diffuse, rendendo la vita degli stranieri in Italia estremamente complessa.

Le regolarizzazioni utilizzate dall’Italia nel corso di questi decenni per soddisfare la domanda di manodopera straniera, spesso impiegata in settori informali e faticosi come il lavoro domestico e edile, contribuiscono alla marginalizzazione dei lavoratori migranti. La dualità del mercato del lavoro italiano, diviso tra grandi imprese, pubblica amministrazione e numerose PMI con contratti spesso precari e sottovalutati, contribuisce a isolare i lavoratori migranti all’interno della società. I migranti vivono in una condizione di segregazione lavorativa e sociale, senza una via d’uscita, in cui anche i loro figli, seppur più vicini in media ai cittadini italiani in termini di standard di vita, affrontano notevoli disparità e incontrano difficoltà nell’emanciparsi dalla condizione di partenza.

In vari settori, l’analisi della situazione italiana mostra che gli stranieri vivono una realtà significativamente più difficile rispetto agli italiani. Dalle dimensioni dell’istruzione e dei redditi alla sfera della salute, le statistiche evidenziano notevoli disparità che colpiscono gli stranieri in Italia rispetto alla popolazione locale.

AFRICA UN CONTINENTE RICCO, MA CON MOLTI PROBLEMI

La povertà in Africa è un problema di cui si è parlato e si parla diffusamente da tempo. Perché un continente ricco di risorse naturali, paesaggistiche e umane, dovrebbe essere una terra a forte criticità per l’uomo? Cercheremo di spiegarlo seguendo questi semplici punti:

1. Conflitti e Instabilità Politica

I conflitti e l’instabilità politica sono dirimenti per l’economia di un Paese, non solo generano perdita di vite, ma scoraggiano anche gli investimenti, interni ed esteri, limitando la crescita economica e causano una fuga di cervelli, dato che le persone istruite e qualificate spesso cercano opportunità migliori altrove, inoltre, i conflitti possono interrompere l’accesso a servizi essenziali come l’istruzione e la sanità aumentando la povertà.

2. Carenze Infrastrutturali 

L’infrastruttura è la colonna vertebrale dello sviluppo economico; strade, ponti e reti di trasporto permettono il commercio e la mobilità delle persone, ospedali e scuole forniscono servizi essenziali che migliorano la qualità della vita e creano una forza lavoro qualificata, l’accesso all’acqua potabile e all’elettricità è essenziale per la vita quotidiana e l’industria. Tuttavia, molte regioni dell’Africa mancano di queste infrastrutture di base, il che ostacola la crescita economica e la povertà continua ad aumentare.

3. Debito Estero e Dipendenza Economica

Il debito estero rappresenta un ostacolo significativo per molti Paesi africani, molti di questi debiti sono stati accumulati durante decenni, spesso a causa di prestiti contratti per finanziare grandi progetti infrastrutturali o per sostenere regimi autoritari, i servizi assorbono una parte significativa del bilancio di questi Paesi, limitando la disponibilità di fondi per servizi pubblici essenziali come sanità e istruzione, inoltre, l’economia di molti Paesi africani è dipendente dalle esportazioni di poche materie prime, rendendoli vulnerabili all’aumento dei prezzi globali.

4. Barriere Commerciali e Protezionismo

Spesso le normative commerciali sono strutturate in modo da favorire i Paesi sviluppati, tariffe elevate, sussidi ai produttori dei Paesi ricchi e normative complesse possono ostacolare l’accesso dei prodotti africani ai mercati internazionali, questo limita le opportunità di crescita e diversificazione economica e rafforza la dipendenza da un piccolo numero di prodotti di esportazione.

5. Cambiamenti Climatici e Scarse Risorse Naturali

I cambiamenti climatici rappresentano una minaccia crescente per l’Africa; eventi climatici estremi come siccità, inondazioni e tempeste possono devastare comunità intere, distruggere raccolti e ridurre l’accesso all’acqua, questo ha un impatto diretto sulla sicurezza alimentare e sulla stabilità economica, inoltre, la gestione non sostenibile delle risorse naturali può esaurire le risorse di cui le comunità dipendono per la loro sopravvivenza e benessere. La deforestazione, l’erosione del suolo e l’inquinamento dell’acqua sono tutti problemi che possono avere un grave impatto significativo sulla qualità della vita e sul potenziale economico dell’Africa.

6. Guerra

Altro fenomeno molto importante che sta rendendo la vita in Africa sempre più complicata sono le continue guerre (interne e non). I continui bombardamenti distruggono i campi, le case e anche i rifugi e le persone non sanno come riuscire a sopravvivere nei territori bombardati; non solo i bombardamenti rendono la vita difficile ma anche il rapimento delle persone per schiavizzarle e di conseguenza torturarle non rendono le cose semplici dato che durante i bombardamenti molte persone vengono catturate e vengono ridotte in schiavitù.

A causa di queste motivazioni sopra elencate molti africani decidono di andarsene per cercare un’altro paese dove potrebbero vivere in pace ma non sempre è così.

A causa dei motivi sopra elencati molti africani decidono di spostarsi in altre zone per trovare la pace e vivere più serenamente ma anche per spostarsi da un paese a un altro non è sempre possibile dato che ci sono dei costi da sostenere per questi viaggi e quindi molte persone non possono partire. Questo riguarda in gran parte i cittadini dell’Africa Occidentale. Questi potenziali migranti indicano come mete ideali l’Europa o il Nord America, entrambe preferite rispetto a destinazioni interne al continente. Si tratta di un orientamento che si differenzia parzialmente rispetto a quello degli africani nel loro complesso inclusi cioè quelli che risiedono in altre aree tra i quali prevale l’opzione di una meta interna alla regione di appartenenza o comunque al continente rispetto alla preferenza per l’Europa o il Nord America. In conclusione molte persone che preferiscono spostarsi in un paese interno al continente sono minori rispetto alle persone che decidono di lasciare il proprio paese d’origine.

LIBIA UN CAPITOLO A PARTE

Già a partire dagli anni Sessanta la Libia costituisce un punto di arrivo per immigrati che giungono a lavorare in tutti i settori d’impiego che questo paese, vasto e sottopopolato, offre loro. Al momento della conquista dell’indipendenza, nel 1951, la Libia è un paese povero: la ricchezza giungerà solo con l’inizio dello sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi, a partire dal 1961, e soprattutto con la spettacolare crescita della rendita delle attività petrolifere nel corso degli anni Settanta.

In un primo momento l’immigrazione araba è largamente preponderante, con prevalenza dei cittadini tunisini ed egiziani; successivamente essa viene bilanciata, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, dall’arrivo di lavoratori europei e asiatici per mezzo di contratti internazionali. Ma questo modello migratorio entra in crisi a partire dai primi anni Ottanta, messo alle corde dal crollo del prezzo del petrolio. Inizia così un periodo di espulsioni di massa di immigrati. Durante gli anni dell’embargo la crisi economica si aggrava, e si configurano nuovi orientamenti geopolitici.

Da un decennio fino ad adesso i flussi migratori dall’Africa subsahariana verso la Libia acquistano grande importanza. Mentre Tripoli tende a parlarne in modo generico, inglobando l’insieme del continente africano, la costruzione di questo spazio migratorio si fonda soprattutto sugli stati del bacino del lago Ciad, dal momento che quasi il 90% degli immigrati subsahariani sono originari di soli tre stati: il Sudan, il Ciad e il Niger. Questo nuovo contesto migratorio ha generato numerosi malintesi che sottendono la nuova politica migratoria libica. 

I problemi di un viaggio in mare

La rotta del Mediterraneo centrale, intrapresa ogni anno da decine di migliaia di donne, uomini e bambini in cerca di salvezza a bordo di barche fatiscenti, è diventata sempre più pericolosa con un alto tasso di mortalità.

Le persone in fuga da guerre, persecuzioni e carestie che tentano la traversata del Mediterraneo spesso già provate da prolungati periodi di detenzione nelle carceri libiche, uno dei paesi con il maggior numero di partenze, sono sempre più esposte al rischio di morte a causa della progressiva scomparsa di entità internazionali, governative e non governative che si dedicano al soccorso in mare.

Nel 2016, l’Italia e l’Europa hanno investito nel rafforzamento della capacità delle autorità marittime libiche di pattugliare le loro coste, intercettare in mare rifugiati e migranti diretti verso l’Europa e riportarli in Libia, oltre che a stringere accordi informali con milizie coinvolte nel traffico dei rifugiati e migranti.

Sono state ignorate, invece, le richieste più volte lanciate dalle organizzazioni della società civile di riformare strutturalmente le politiche migratorie europee e garantire l’apertura di canali sicuri e regolari per rifugiati e migranti, in misura adeguata alla gravità della situazione.

Quando la cosiddetta “emergenza migranti” ha iniziato a farsi sentire sulle coste italiane era l’estate del 2012. Un anno dopo, sull’onda emotiva del naufragio del 3 ottobre che ha visto perdere la vita in mare oltre duecento persone, il governo italiano ha lanciato la cosiddetta operazione Mare Nostrum, destinata al salvataggio in mare dei migranti che cercavano di attraversare il Canale di Sicilia salpando dalle coste libiche per raggiungere il territorio italiano e maltese.

Il 31 ottobre 2014, il governo italiano ha deciso di sospendere Mare Nostrum. Al suo posto è stata istituita l’operazione Triton, una vasta missione a guida europea, che ha puntato più che altro al controllo delle frontiere. Mare Nostrum e Triton sono risultate così due operazioni del tutto differenti, nel mandato, nei numeri, nel bilancio e nelle forze impiegate.

A Triton è subentrata nel 2018 l’operazione Themis, più coerente con le nuove rotte migratorie.

Collaterale è l’operazione Sophia, avviata nel 2015 e oggi prorogata dai Paesi Ue ma senza più le sue navi per adempiere al suo mandato, che si concentra principalmente sugli sbarchi e il salvataggio delle persone in mare.

Dove sbarcare

Il dovere di prestare assistenza a chi si trovi in pericolo in mare rappresenta un’antica tradizione, un obbligo morale e giuridico, ed una norma di diritto internazionale, da tempo codificata in numerosi strumenti giuridici vincolanti. Tale dovere è imposto in primo luogo al capitano di una nave la Convenzione SOLAS, acronimo di Safety of Life at Sea, impone direttamente al capitano di una nave l’obbligo di prestare soccorso a chiunque si trovi in difficoltà in mare, a patto che questo non comporti una situazione di pericolo per le persone a bordo della nave soccorritrice.

Tuttavia, anche gli Stati sono destinatari di obblighi. Nel campo del diritto internazionale del mare e del diritto SAR (acronimo di Search and Rescue, ossia ricerca e soccorso), infatti, gli Stati hanno due obblighi fondamentali: per quel che riguarda gli Stati costieri, quello relativo alla costituzione ed al mantenimento di adeguate strutture di ricerca e soccorso al largo delle proprie coste, integrato dal dovere di collaborare con le organizzazioni SAR di nazioni adiacenti, anche per mezzo di accordi regionali, e di coordinare le operazioni di ricerca e soccorso con gli Stati vicini, invece, il dovere di prescrivere ai comandanti delle navi battenti la propria bandiera di soccorrere le persone che si trovino in pericolo in mare, indipendentemente dalla loro nazionalità.

Recentemente, tuttavia, il dovere di salvataggio ed i suoi corollari, come il dovere di sbarcare le persone soccorse in un porto sicuro, sono stati messi in discussione da numerosi governi Europei, che mirano a liberarsi dalla responsabilità dell’accoglimento dei migranti per mezzo di discutibili interpretazioni della normativa internazionale in vigore.

LA MIGRAZIONE CINESE IN ITALIA

La migrazione cinese in Italia iniziò dopo la  I^ Guerra Mondiale, quando il primo gruppo di cinesi dal sud dello Zhejiang arrivò in Italia, soprattutto a Milano. Questo gruppo, probabilmente veniva dalla Francia dove aveva lavorato nelle fabbriche durante la guerra.

Negli anni successivi non ci furono molti migranti a causa della guerra e del divieto imposto dalla Repubblica Popolare Cinese infatti dopo quasi 60 anni i migranti cinesi registrati in Italia erano solo 402 e svolgevano piccole attività come laboratori di pelletteria, lavanderie, ristorazione e vendita ambulanti.

Negli anni ottanta la Cina a seguito del libero mercato e all’apertura ai capitali esteri trasforma la migrazione in un vero e proprio modello imprenditoriale. Infatti i nuovi arrivati trovano lavoro e sistemazione presso i familiari già residenti ed iniziano attività soprattutto nel settore della lavorazione artigianale della pelle e nella ristorazione, a Milano, Prato, Roma, Firenze, Torino e Padova.

Negli anni 90 aumentano i flussi migratori soprattutto per motivi di lavoro. Crescono le tipologie lavorative infatti cominciano a nascere i laboratori tecnici lavorando come terzisti per ditte italiane nei settori dell’abbigliamento, pelletteria e calzatura.

A partire dagli anni duemila si ha un’ascesa sociale sviluppando importazione di prodotti dalla Cina e di esportazione all’estero, quindi il settore del commercio supera quello manifatturiero per numero di strutture. Man mano i cinesi sono diventati una componente stabile della popolazione (infatti la popolazione cinese è composta da famiglie che hanno almeno due generazioni), conquistando un eccellente posizione nel mercato di lavoro.

Attualmente si sta affermando una terza generazione di giovani cinesi molto istruiti, che curano i rapporti tra l’Italia e il loro paese.

Parlano perfettamente l’italiano oltre al cinese, e conoscono l’inglese. Questi giovani costituiscono una leva di nativi multiculturali che si sta affermando dando lavoro anche agli italiani e fa da ponte fra cultura occidentale e cinese.

Il lavoro è il principale motivo del rilascio dei permessi di soggiorno con il 6,1% del totale di quelli rilasciati, segue il ricongiungimento familiare con il 30,9%.

Quella cinese è la comunità con il più basso tasso di disoccupazione. Contribuisce a tutto questo l’ampia partecipazione femminile al mercato del lavoro cinese, infatti fra i titolari di imprese le donne cinesi sono il 46% tanto da collocarsi al primo posto fra le imprenditrici italiane.

Nell’ultimo decennio le iscrizioni di alunni cinesi hanno fatto registrare l’aumento più considerevole tra gli stranieri, anche se la presenza della comunità nelle nostre scuole non è tra le più alte infatti solo il 66% dei minori cinesi presenti in Italia sono frequentanti, e rispetto alla popolazione scolastica totale gli alunni cinesi sono il 6,3%.

Nel rendimento scolastico eccellono in matematica.

Per quanto riguarda l’università la presenza cinese è dell’11,4% sul totale degli studenti. Tra i laureati cinesi il 62% sono donne.

La comunità cinese per quanto riguarda la cittadinanza italiana, nonostante sia in crescita, è ancora scarsamente coinvolta dal fenomeno, perché la Cina non ammette la doppia cittadinanza.

Nelle famiglie della comunità i matrimoni di solito sono coniugi con la stessa origine, invece quelli misti sono il 2,5%. 

L’autoreferenzialità culturale e comunitaria è forte perché i legami intra-etnici assicurano mobilità sociale e perché la famiglia è l’istituzione portante della collettività.

Si può dire che le seconde e terze generazioni dimostrano un’integrazione positiva infatti sono motivo di orgoglio sia per la comunità cinese che per quella italiana, dimostrando come due culture e civiltà diverse, come quella cinese e quella italiana, si possono unire, formando persone istruite e capaci in diversi ambiti lavorativi.

Soprattutto le prime generazioni faticano a trovare un equilibrio, molto probabilmente legato alla questione della lingua. E’ innegabile che la lingua cinese sia distante anni luce da quella italiana. Il cinese utilizza una fonologia diversa da quella delle lingue romanze; inoltre un’altra differenza riguarda il tono, infatti, ogni sillaba cinese può essere letta con quattro toni diversi. Se consideriamo la scrittura, possiamo dire che in cinese ogni carattere si associa ad un significato e questo rende il numero dei caratteri possibili praticamente infinito. Ciò spiega perché molto spesso le prime generazioni di migranti non siano ancora arrivate ad esprimersi correttamente in italiano, nonostante gli anni passati nel nostro Paese.

Questo divario può essere colmato attraverso iniziative di integrazione, come programmi di apprendimento specifico. La volontà di integrazione deve essere in qualsiasi modo valorizzata, infatti, sono molte le associazioni e le iniziative che cercano di creare un ponte fra le due culture, cercando un modo per coniugare l’integrazione con la valorizzazione delle tradizioni della cultura d’origine.

Nonostante il radicamento della comunità in Italia è un processo in atto, favorito dall’attivismo di molte associazioni nel territorio, che si propongono sia come punto di riferimento all’interno sia come promotore di scambi tra Italia e Cina.

MIGRAZIONI  PER PROBLEMI ETICI-RELIGIOSI

Le migrazioni rappresentano un fenomeno complesso, è un tema molto sensibile, soprattutto l’aspetto legato alla religione. Ci si domanda spesso cosa spinge le persone ad abbandonare il proprio paese nativo. Si può rispondere dicendo che le cause sono la sicurezza, la demografia, i diritti umani e in questi ultimi anni anche il cambiamento climatico. D’altra parte i fattori di spinta, ovvero i motivi che portano le persone a migrare, sono: socio-economici, demografici e ambientali. Molte persone lasciano alle spalle esperienze di persecuzioni etnico-religiose, razziali, politiche e culturali nel tentativo di trovare altrove una vita migliore.

Diverse sono le persone che in questi anni stanno migrando verso l’Europa per problematiche etico-religiosi. Per fronteggiare le migrazioni clandestine, l’Europa ha introdotto la cosiddetta Carta Blu UE, il permesso unico e lo status di soggiornante di lungo periodo.

Ci sono alcune comunità la cui storia ancora rimane poco conosciuta. Sapete chi sono gli Yazidi? Sono una comunità religiosa di etnia e lingua curda, pacifica e localizzata geograficamente nel nord Iraq. Nella storia hanno subito diversi attacchi a causa della loro religione professata. Sono passati circa 9 anni dal genocidio compiuto da Da’esh, nonostante questo, continuano a lottare e molti sono stati costretti a fuggire verso l’Europa. Diversi Paesi li hanno accolti come la Germania, l’Austria, Francia, mentre in Italia non è presente una grande numero di Yazidi.

Altro popolo in fuga è quello Afghano. La situazione afghana precipitata nel 2021 con gli accordi di Dora tra gli Stati Uniti e i rappresentanti dei Talebani e come conseguenza questi ultimi sono entrati a Kabul generando allarmismo in Europa, determinando un grande flusso migratorio senza parlare di una invasione, perché l’85% dei rifugiati in realtà si trova in Pakistan. Sono emigrati soprattutto giovani maschi e le autorità europee hanno sempre considerato le richieste di asilo presentate dagli afghani con diffidenza rimpatriando molti di loro. La meta preferita è stata la Germania, seguita da Ungheria e Austria. La Grecia è stata considerata come trampolino per l’Italia che a sua volta è stata una base di partenza per i paesi del centro Europa. 

Un ulteriore popolo migrante è quello Curdo, errante in cerca di protezione dalle persecuzioni. Per questo popolo l’Italia è un Paese di transito. Alcuni si sono stabiliti in Toscana e Calabria, ma molti si sono diretti in Germania in cerca di un lavoro e condizioni di vita migliori. 

Tornando nei territori afghani troviamo un altro popolo etcnico: quello degli Hazara. È un popolo islamico che ha subito persecuzioni storiche riprese dai Talebani negli anni ‘90 e dal 2021 hanno lasciato il paese a causa di continui attacchi. Si hanno poche informazioni sulla loro presenza in Europa, ma chi si è stabilito aiuta la società, come una ragazza che giunta in Italia è diventata presidente dell’associazione di solidarietà per le donne Afghane. 

Queste migrazioni hanno portato in Europa un effetto inaspettato: il pluralismo religioso. Spesso la religione è stata vista come un ostacolo alla integrazione, in realtà può diventare una risorsa di resilienza e coesione sociale se non vi sono pregiudizi e se c’è riconoscimento reciproco.

I MIGRANTI IN TUSCIA

Quando si parla di immigrazione ci si riempie la bocca di slogan e frasi fatte per avere un quadro più preciso bisogna confrontarsi con i numeri, nella Tuscia attualmente si contano più di 800 migranti ospitati nelle varie strutture presenti nei comuni, i primi flussi in aumento sono registrati tra Marzo e Aprile e tra Maggio e Luglio per questo le strutture sono a rischio collasso, il problema più grande è la disponibilità di posti.

Le strutture presenti sono di due tipi in base allo status degli ospitati, i richiedenti asilo vengono accolti nei centri d accoglienza straordinaria, mentre quelli che ricevono il riconoscimento di protezione internazionale sono inviati nei Sai, in queste strutture si instaurano dei progetti per l’inserimento sociale.

A Viterbo il parcheggio di Valle Faul è diventato un punto di partenza e arrivo per i lavoratori impiegati ogni giorno nelle campagne a Viterbo uno dei pochi punti di socializzazione in città insieme alla Moschea di Via Garbini o il Tempio Sikh verso Tuscania.

Gli immigrati si ritrovano a gruppetti di 5-6 persone. Rispetto al passato sono un pò meno i braccianti in bicicletta, qualcuno ha preso la patente della macchina e la mette a disposizione per il viaggio dividendo le spese.

I migranti coinvolti provengono principalmente da Egitto, Siria, Romania e Pakistan. 

Sebbene il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori migranti non appaia in forme eclatanti come denunce di grave sfruttamento che hanno visto l’intervento delle forze dell’ordine, si può affermare che nella Tuscia i braccianti sono sottopagati. Il fenomeno che comprova lo sfruttamento è il servizio di furgoni che viene effettuato da aziende oppure da terze parti. 

A corollario del fenomeno abbiamo assistito lo scorso 10 Novembre ad un’esplosione che ha distrutto un centro di accoglienza a San Lorenzo Nuovo, dalle indagini svolte dai vigili del fuoco e dalla magistratura è emerso che una delle principali ipotesi sia stata una fuga di gas, infatti alcuni testimoni hanno dichiarto che forti odori di gas sono stati sentiti qualche ora prima dall’esplosione. La struttura ospitava migranti e garantiva loro una sistemata immediatamente e un’assistenza psicologica ai 31 richiedenti. Per quanto riguarda le vittime i bambini coinvolti sono stati dimessi dopo qualche ora o giorno. Invece i 10 rimasti in ospedale sono monitorati per ustioni in terapia intensiva. “Ospita” la società che gestisce il centro, dichiara che non erano presenti impianti a gas all’interno della struttura, le cause certe dell’esplosione restano ancora irrisolte.

GLI IMMIGRATI ITALIANI IN AMERICA A FINE 800

Verso la fine del ‘800 un ragazzo italiano di 11 anni partì da Le Havre, che si trova in Francia, verso l’America. Era Amedeo Obici, meglio  conosciuto come mister Peanuts. Lavorando sodo riuscì a fare fortuna nel mercato delle noccioline americane.

Questo è quello che speravano gli immigrati italiani che partivano per l’America, ma nella realtà erano in pochi a essere così fortunati.

In Italia tra il 1876 e il 1970 ci fu un periodo di grande migrazione verso le Americhe e vari paesi del Nord Europa. Questa migrazione fu causata da varie situazioni: come la crisi agricola del Sud Italia,  il regime fascista oppure la mancanza di lavoro, in coincidenza con il boom economico. Si stima che oltre 5 milioni di italiani siano emigrati, e ognuno di loro abbia dovuto sopravvivere al viaggio.

Il  viaggio in mare ,uno dei più duri, durava circa 40 giorni: si rimaneva reclusi all’interno di una nave, le cui condizioni igieniche erano inesistenti, di conseguenza molti morivano nel tragitto. Ci sono numerose lettere che raccontano l’orrore di questo viaggio. Storie di bambini di 4/5 anni che morivano dopo essersi ammalati, di persone ammassate in stanze minuscole rispetto al loro numero, purtroppo non finiva qui.

Una volta giunti ad Ellis Island, gli italiani venivano maltrattati, giudicati da stereotipi come le 4 M: Mafia, Madre, Mandolino e Maccheroni e le 3 C: Criminalità, Chiesa e Chianti. Questi dispregiativi descrivevano l’italiano come un uomo rozzo, criminale e ubriacone. Con questa descrizione l’italiano veniva visto come un pericolo e veniva trattato come tale. La maggior parte degli italiani era isolata in zone della città che erano povere e prive di igiene. Oltre a questa realtà c’era pure quella lavorativa in cui venivano costretti ai lavori forzati e allo sfruttamento.

Nel 1889 Carlo Ferrari, emigrato a San Paolo in Brasile, scrive riguardo le condizioni di lavoro in cui gli immigrati sono costretti a sottostare:

“Alle imprecazioni, ai gemiti, alle esclamazioni, alle preghiere, alle suppliche di tanti emigrati, si scuoterebbero un cuore fosse pur cerchiato di ferro! Molti vengono mandati lontano venti o trenta miglia, alla coltivazione dello zucchero e del caffè; e per mercede hanno appena il vitto dopodiché sono costretti a fuggire. Almeno questo vitto fosse buono! Ma invece solo riso e polenta, senza pane, e per giunta al guadagno molti sono divorati dai bissi e dalle berne che moltiplicati cadono malati.”

Le poche persone che riuscirono nel sogno americano dettero parte dei loro guadagni ai parenti in Italia e conseguentemente a queste entrate di denaro la qualità di vita in Italia migliorò progressivamente e fino al 1970 la qualità di vita migliorò abbastanza da quasi fermare l’emigrazione italiana.

FUGGIRE DALL’ITALIA PER VIVERE?

La fuga dei cervelli dall’Italia è un fenomeno in costante aumento ed ha registrato un aumento del 41,8% in solamente otto anni. Questo fenomeno colpisce maggiormente i giovani laureati e ricercatori, creando un divario significativo tra Italia e altri paesi europei in termini di istruzione e retribuzione. 

I laureati italiani guadagnano meno rispetto a quelli europei, e la difficoltà nell’ottenere contratti a tempo indeterminato contribuisce alla precarizzazione del lavoro. 

Il premio Nobel Giorgio Parisi ha sottolineato l’importanza di aumentare i finanziamenti alle università per frenare questa fuga di talenti. Tuttavia, secondo l’Istat, il problema risiede anche nel fatto che gli espatriati guadagnerebbero in media il 61% in più rispetto a coloro che rimangono in Italia dopo 5 anni dalla laurea.

L’overqualification o sovraqualifica si verifica quando una persona ha troppo istruzione rispetto a quanto richiesto per il lavoro che svolge. Spesso, questo porta all’assunzione in posizioni che richiedono meno competenze di quelle che la persona ha acquisito, questo fenomeno è alimentato dalla disparità tra domanda e offerta di lavoro, non solo impatta economicamente il Paese, ma influisce anche sulla soddisfazione professionale dei giovani laureati.

Nel sud Italia, la fuga di cervelli è particolarmente marcata, con oltre 117.000 persone che emigrano ogni anno, di cui il 20% sono laureati che difficilmente faranno ritorno. Aldo Masullo, noto filosofo, sostiene che migliorare i servizi del nostro paese e le istituzioni nel sud potrebbe favorire il ritorno di cervelli.

I giovani italiani emigrano per trovare lavori in linea con le proprie qualifiche, mentre l’investimento pubblico in istruzione è al di sotto della media europea. L’assenza di laureati nelle discipline STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) aggrava ulteriormente la situazione.

Questa emigrazione, con un numero crescente di giovani italiani che lasciano il Paese, ha effetti contrastanti sulla crescita dell’Italia. Sebbene possa portare a benefici a lungo termine come la circolazione di talenti, lo scambio di idee e il commercio internazionale, al momento l’Italia sta subendo una perdita significativa di percentuale del suo PIL ogni anno a causa della fuga di cervelli.

Il governo italiano spende più di 100.000 euro per ogni studente, ma questi fondi vanno sprecati quando gli studenti decidono di trasferirsi all’estero.

In conclusione, è essenziale affrontare la fuga dei cervelli attraverso politiche mirate, investimenti nelle università, miglioramenti delle condizioni lavorative e nelle istituzioni. Solo così l’Italia potrà trasformare la fuga in una circolazione di talenti, promuovendo la crescita sostenibile del Paese.

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